sabato 29 novembre 2008

Da Città vecchia a San Giovanni: un orso bianco!

[...io e Gubbo andavamo avanti ed indietro per Via S.Michele, quando ci accorgemmo che un enorme orso bianco stava vagando per il rione. L'orso era ben educato, e non era cattivo, anzi... mi ricordava Mimi... affettuoso, ruffiano...
Cambio scena
Il giorno dopo quell'orso era sempre lì! Ma di chi sarà mai? ci chiedemmo... e quindi ci facemmo portare da lui verso la sua casa.
La casa si trovava a San Giovanni, ma il palazzone di vetro entro cui viveva era similissimo alle case valenciane, vicino la città delle arti e delle scienze.
Cambio scena
Entrammo nell'appartamento, e aperta la porta trovammo il cadavere del padrone dell'orso. Era vecchio, abbronzato, vestito in tuta e seduto sul divano; la sua faccia era ricoperta di mosche, perchè ormai era morto da 3 giorni! Io non volevo vedere quel cadavere, quindi mi coprìì gli occhi, ma Gubbo cercò di ripulire la faccia del vecchio.
Cambio scena
Iniziai a fare un giro per la casa, e mi accorsi che la pianta della casa era uguale a quella di nonna AnnaMaria e nonno Bruno, ma leggermente più grande!
Tutte le stanze erano stracolme di oggetti antichissimi, trascurati, pieni di polveri, e mi facevano paura, molta paura.
Mi terrorizzava il fatto che quelle cose potessero essere lì da almeno cinquata - sessant'anni...
Una delle stanze, quella che doveva corrispondere alla stanza di mia zia (nell'appartamento dei miei nonni), aveva dentro moltissime macchine da cucire e stoffe; quindi lui era un sarto!
Cambio scena
Presi il telefono e chiamai il 118, avvisandoli del fatto che il vecchio era morto; loro sarebbero arrivati di li a poco.
E l'orso bianco? bè, l'avremmo adottato noi! ...]

lunedì 24 novembre 2008

...Io so che tu pensi che se io ti avessi...

A volte un sacco di cose si presentano come un fulmine a ciel sereno; forse son lì per un motivo, forse per caso, forse perchè le abbiamo volute noi. Io credo che se qualcosa ci accade, dalla promozione d'ufficio alla malattia, è perchè noi lo vogliamo. Senza tanti se, tanti ma.
E ora qualcosa è accaduto, credo perchè lo volevo io.
Ma qualcos'altro è accaduto indipendentemente da me, semplicemente perchè lo volevano altre due persone. E chissenefrega se qualcuno soffre: l'uomo è egoista per natura, homo homini lupus, mors tua vita mea...

Ma ritengo che a volte non è così necessario esser egoisti; forse farebbe meglio esserlo un po' si e un po' no.

Spesso e volentieri s'innesca automanticamente, ma volontariamente, quell'orribile meccanismo umano: io vorrei una cosa, ma non la chiedo, sennò l'altro crede che io penso solamente a me, quindi me la tengo dentro; ma dai... magari riesco a farla comunque, la faccio senza pensare di dirla all'altro; l'altro ci rimane male, e io penso "ma ero sicuro che se gliel'avessi chiesto lui avrebbe pensato che..."
Facile, troppo facile, per non parlare della "facilissime" dinamiche interpersonali che s'instaurano all'interno degli individui!

Mi sa che a volte è meglio parlare... e se si vuol essere egoisti basta esserlo se l'altro è d'accordo.

venerdì 14 novembre 2008

Istruzione ieri; Istruzione oggi; Istruzione domani?

Quale sarà il nostro futuro universitario; cos’hanno vissuto tutti quegli studenti che prima di noi si sono laureati… queste dovrebbero essere le domande che a mio acchito dovremmo porci per capire come è nata e perché è nata questa riforma, la Riforma 133, così poco condivisa sia dalla destra, che dalla sinistra, dagli insegnanti, dagli studenti e dai ricercatori. Dovremmo interrogarci sul perché, sul come e sul cosa accadrà dal prossimo anno accademico.
Prima di tutto dovremmo rimandare la nostra conoscenza al secondo dopoguerra, più precisamente al 1947, anno in cui varata la Costituzione Italiana venne previsto l’articolo 33, in nome dell’autonomia universitaria:

“Art. 33.
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.”

Ebbene, in seguito a ciò l’Università italiana subì 3 grandi riforme, accompagnate più o meno da cortei, manifestazioni, critiche, appoggi…
La prima è definibile nello scenario sessantottino della politica; infatti vennero liberalizzati gli accessi alle diverse facoltà eliminando il vincolo imposto dalla riforma Gentile sul passaggio attraverso il liceo classico. Il 31 ottobre 1969 con il decreto n. 1236 del Presidente della Repubblica venne varata la prima grande riforma universitaria.
Fu con l’avvento dell’anno accademico 2000-2001 che partì la grande riforma Berlinguer – Zecchino (nata dalla Bozza Martinotti del 1997), oggi nota alla gran parte degli studenti come il “famoso 3+2”. La riforma venne attuata immediatamente, tanto che nell’anno successivo già il 97% delle facoltà italiane sottostava al “nuovo ordinamento”. La riforma, che ora spiegherò a breve, ha voluto esser una sorta di “americanizzazione” o “europeizzazione forzata” dell’istruzione, come la definiscono in molti, rimodellando le vecchie lauree da 4 (per esempio matematica) o 5 anni (per esempio psicologia) in lauree brevi (triennali, paragonabili al “bachelor”) e lauree specialistiche (biennali), con la possibilità d’aggiunta, che già in precedenza c’era, di masters, scuole di specializzazione… etc…
Le ragioni di questa riforma sono state, secondo i ministri portavoce, ben diverse dall’europeizzazione forzata sospetta: l’età media dei neolaureati italiani era troppo elevata rispetto alla media europea e il 2/3 degli immatricolati non proseguiva gli studi. I risultati immediati della riforma sono stati la crescita del numero degli studenti, infatti dopo solamente due anni esistevano quasi 8.000 corsi di laurea, alcuni dei quali con meno di dieci iscritti; l’offerta formativa si è ampliata in maniera tale da render i corsi di studio che prima erano definiti a livello nazionale, a livello strettamente circoscritto, infatti alcuni diversi indirizzi oggi si attivano e si concludono nelle singole università. La riforma ha provocato delle conseguenze non indifferenti circa il mercato del lavoro, che si è trovato dinanzi numerosi neo-laureati i cui titoli erano leggermente diversi, ma forse equipollenti (per esempio psicologia del lavoro – psicologia ergonomica). La riforma ha introdotto nella vita universitaria i famosi “crediti”, che potremmo oggi definire come una raccolta dei bollini della coop; questi impediscono spesso e volentieri l’accesso ad alcune lauree specialistiche ed obbligano lo studente neo-laureato alla triennale ad integrare una mole d’esami tale da fargli perdere anche un anno, a volte; e bisogna sottolineare che non sempre esiste un corso di laurea specialistica che segue la triennale.
La struttura della riforma è stata incentrata sul rapporto formazione-produzione subordinando la prima alla seconda. Alla nuova università, così delineata, viene demandato il compito di formare i quadri professionali intermedi; compito precedentemente affidato ad enti di collocamento statali o direttamente alle aziende. A questo nuovo impegno corrisponde la rimodulazione dei percorsi formativi: tre anni di base cui si dovrebbero aggiungere altri due anni di specializzazione seguiti eventualmente da master o corsi di perfezionamento (la formazione universitaria al lavoro è stata dunque allungata: prima della riforma ci si laureava in fisica in 4 anni, ora in 5 e sono quasi sempre necessari master, corsi…). L’idea guida di questa suddivisione è la gerarchizzazione del percorso formativo: ogni titolo di studio (laurea triennale, laurea specialistica e corsi specializzanti) conferisce allo studente un diverso livello di formazione cui corrisponde un preciso ruolo nella rigida gerarchia del mondo aziendale, dell’impresa e del lavoro libero e professionale.
Lo schema 3+2 comporta anche la fine della formazione a carattere enciclopedico dei corsi quinquennali e quadriennali a fronte di una specializzazione del sapere più funzionale e tecnico che si è riservato oggi in nuove figure strettamente settoriali.
Ma eccoci alla fatidica “ultima grande riforma”: la riforma Tremonti – Brunetta – Gelmini, meglio nota come legge 133/08.
In realtà non si sa ancora nulla circa i cambi di piani di studio, soldi investiti maggiormente in un ambito o in un altro, formazioni… etc… fin’ora infatti si è a conoscenza soltanto di cosa non avrà più l’università italiana: l’università e la ricerca italiana non avranno più quasi 1500 milioni di euro in cinque anni.
I tagli nascono da diversi fattori, ma tutti sintetizzabili in un’unica parola: sprechi, che vanno razionalizzati ed essenzializzati. Interroghiamoci su quanto “costa” ognuno di noi all’Università italiana. I dati OCSE prevedono una spesa annuale per studente che va dai 24370$ in Usa ai 12446 per la Francia ed ai 8026 per l’Italia, ma c’è d’altro canto chi sostiene, come Roberto Perotti in “The Italian University System: Rules vs. Incentives” e di nuovo in “L’Università truccata”, Einaudi che: la mancanza di fondi è un falso mito. Tenendo opportunamente conto della circostanza che un numero notevole di studenti iscritti non ha più un rapporto con l’università e dunque non grava in alcun senso sulle strutture universitarie, la spesa annuale per studente risulta in Italia “la più alta al mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia. Nonostante ciò, i tagli, più o meno pesanti che siano, porteranno pur a qualcosa (riduzione dei servizi agli studenti, riduzione delle infrastrutture, peggioramento della qualità didattica, riduzione delle attività di ricerca).
Arriviamo dunque al secondo punto cruciale: Università come Fondazioni.
Il Senato Accademico infatti avrà la possibilità di deliberare la trasformazione dell’Ateneo in una Fondazione in grado di raccogliere finanziamenti privati, implicazioni di tale decisione sarebbero:
- annullamento della natura pubblica delle Università
- divisione degli Atenei in Fondazioni di serie A e B in funzione della capacità economica della Regione di appartenenza
- annullamento del diritto allo studio
- livellamento della differenza delle tasse universitarie rispetto alle università private
A ciò si aggiunge la riduzione del turn-over, che dovrebbe secondo quanto scritto nella legge avvenire solamente fino al 2012. Tale riduzione comporterebbe 1 su10 nuove assunzioni rispetto al numero di pensionamenti per il 2009, 1 su 5 nuove assunzioni rispetto al numero di pensionamenti per il 2010 e il 2011 e 1 su 2 nuove assunzioni rispetto al numero di pensionamenti per il 2012. Questa, forse, è la conseguenza dell’erronea assunzione del corpo docenti: gli studenti universitari sono aumentati del 7% mentre il numero dei professori del 25% senza tralasciare il fatto che negli ultimi cinque anni sono stati messi al bando 13.232 posti da associato e ne sono stati assunti 26.000 per un totale di 300 milioni di euro.
Dal 2001 (anno in cui è stata varata la legge Zecchino – Berlinguer) ad oggi i corsi di laurea sono passati da 2.444 a 5.500, forse soddisfacendo maggiormente le richieste dei professori, anziché degli studenti come dovrebbe avvenire. Infatti in Italia esistono 27 corsi di laurea con un unico studente; ed esistono pure corsi con zero iscritti (per es. Scienze delle religioni a Firenze). Le università sono 90 con 330 sedi distaccate (in regione per esempio ci sono Pordenone, Gorizia, Portogruaro…) e 170 mila insegnamenti attivati, rispetto alle 90.000 della media europea.
323 corsi di laurea non superano i 15 studenti iscritti, e 20 sono le università italiane sull’orlo della crisi finanziaria; basti pensare infatti allo scandalo dell’Università fiorentina, che pur avendo i conti in rosso si permetteva il lusso di possedere 40 ettari di terreno (San Casciano Val di Pesaro) per produrre olio, vino e grappa, e lo stesso Rettore aveva stanziato circa 1,2 milioni di euro del bilancio universitario per trasformare il terreno in agriturismo.
Ma se è vero che i tagli ridurranno i servizi perché alcune università, come quella de L’Aquila che vanta un disavanzo di 12 milioni di euro impegna circa il 95,5% del fondo per pagare stipendi? Sottolineando pure il fatto che tale comportante è illegale: la legge 449/97 art. 5, comma 6,4 sostiene che le spese fisse e obbligatorie per il personale di ruolo delle università statali non possono eccedere il 90 per cento dei trasferimenti statali sul fondo per il finanziamento ordinario.
Forse ciò che maggiormente preoccupa gli universitari italiani è la possibile impossibilità di studiare; è la possibile impossibilità di laurearsi, la possibile impossibilità di fare ricerca, di aiutare l’umanità, di incrementare le conoscenze universali. Forse è questo ciò che causeranno le Fondazioni universitarie. Ed è ciò che preoccupa anche me. E’ da sottolineare però che l’istruzione italiana (scuola, università e ricerca) viene presa a bastone bipartisan: nessuno risparmia tagli, ma nessuno fa mai niente per criticare in maniera produttiva quello che è il nostro futuro.
[Una norma equivalente a quella della legge 133 (possibilità per le università di diventare fondazioni private) fu approvata dal centrosinistra (governo Amato) nel 2000 ed entrò in vigore nel 2001. Si tratta del Decreto del Presidente della Repubblica 254/2001 “ Regolamento recante criteri e modalità per la costituzione di fondazioni universitarie di diritto privato, a norma dell’ articolo 59, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388.]
[Il Ministro Mussi ha tolto ben più di quanto sta togliendo Tremonti: come racconta il neo-Rettore della Sapienza: “ Ha tolto 87 milioni di euro alla ricerca per darli agli autotrasportatori che protestavano contro il caro benzina. Chiaramente è stata una scelta dell ’ allora ministro dell ’ Economia, Padoa Schioppa, ma Mussi non ha detto niente]
Non c’è mai stato, a mio avviso, un ministro dell’istruzione capace di realizzare ciò che gli studenti ed il corpo docente richiedevano; mai nessuno si è preoccupato di attuare un dialogo: nemmeno oggi. Nessun ministro si è mai preso la briga di sapere cosa fosse più giusto per i bambini, per gli adolescenti e per gli universitari. Sarebbe quantomeno divertente far riflettere quei simpatici politicanti seduti sulle loro poltrone in “pelle umana” sul fatto che il loro stipendio e le macchine blu sono le prime nell’unione europea.
Si parla di “Università dei baroni”, e nessuno nega che sia falso, basti pensare a tutte quelle facoltà che sono portate avanti da famiglie, zii, cugini, e amici degli amici. Ma questi tagli non aiuteranno. Non aiuteranno noi, non aiuteranno chi ha voglia di fare, non aiuteranno quei ricercatori che hanno fatto più pubblicazioni di un professore ordinario settant’enne che è aggrappato alla propria cattedra con denti ed unghie.
Credo sia arrivato il momento di mettere le mani in tasca ai nostri professori, di mettere le mani in tasca alla nostra università, ai presidi, ai ricercatori, ed al rettore: solamente conoscendo quali sono i nostri sprechi, quali sono i nostri investimenti si potrà mediare ed attutire i tagli, impedendo che l’università di Trieste cada nella disintegrazione e distruzione.
Sostengo l’idea di alcuni studenti, miei compagni di corso (Kit e Priel), di attuare dei gruppi di lavoro collaborativi tra studenti e docenti: è ora di riprendere in mano gli studi psicologici e pedagogici circa l’educazione scolastica, l’istruzione, la formazione professionale perché l’attuale riforma ha toccato, col decreto 137, punti importantissimi per lo sviluppo personale: classi separate per bambini stranieri, classi primavera, riduzione del sostegno per bambini diversamente abili.
L’organizzazione scolastica deve essere basata su ricerche, su studi e non su tagli campati in aria per salvaguardare il debito del paese.
Quest’articolo è voluto esser critico sotto tutti i punti di vista: non difendo l’università italiana, non difendo la nuova riforma, tantomeno quelle vecchie. Ho desiderio, credo come la gran parte di voi, di cambiamento, di riforme serie e razionali, di idee innovative e socialmente, pedagogicamente e psicologicamente corrette, costruttive per noi e per il paese tutto.

[allego una presentazione power point che potrebbe schiarirvi le idee: http://docs.google.com/Presentation?id=df7m4p3x_1gbb6bjfm ]